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Con Angela Demattè sulle tracce della Memoria

da | Gen 27, 2024 | Arte & Teatro | 0 commenti

27 Gennaio 2024| Giornata della Memoria | Etty Hillesum cercando un tetto a Dio | Monologo dell’attrice Angela Demattè su testo di Marina Corradi

Dialogando con l’attrice e drammaturga Angela Demattè, avendo come focus un aspetto più ampio riguardo <la Memoria>, ponendo attenzione sulle azioni di Etty, sulla dimensione dell’Altro e su quanto è fondamentale educare al Ricordo per porre solide basi nel presente.

Angela ci ritroviamo a conversare a distanza di quasi un anno: il nostro “incontro virtuale” è nato proprio dalla figura storica di Lydia tra le nazioni, in scena al Giuditta Pasta di Saronno, luogo caro e familiare. Avevamo marginalmente trattato Hetty Hillesum ed ecco che finalmente è arrivato il momento di poter approfondire la potenza e la grazia di questa Donna, data la sua semplicità, la sua trasparenza d’animo. Cosa puoi raccontarci di lei, come è stato entrare in contatto con Hetty attraverso le fonti storiche e il testo di Marina Corradi?

Il testo nasce nel 2007: un’amica di Roma, apparentemente senza un nesso causale, ha associato me alla figura di Etty. In quegli anni svolgevo la professione di attrice, non avevo ancora intrapreso la strada della drammaturgi. Attraverso altre conoscenze, portammo la storia della Hillesum a Marina Corradi, già giornalista e autrice di diversi libri: per lei fu una vera folgorazione. I diari di Etty li mise sul comodino accanto alle Sacra Scrittura, ne è diventata amica attraverso parole e anima giunte dalla Storia. Questo monologo risente perciò del fervore e del percepire di Marina. Un particolare che colpì molto nel trattare questa figura è che Etty medesima si definiva, nelle sue righe, la ragazza che non sapeva inginocchiarsi.

Pochi giorni fa sulle notizie dei giornali locali si riportavano dettagli su incidenti tragici: due treni hanno irrimediabilmente investito due persone. Questo mi ha fatto riflettere molto sul valore che l’uomo dà oggi sulla vita. I treni ogni giorno ci portano ovunque dobbiamo recarci. E poi ci sono quei treni legati allo strazio della Seconda Guerra Mondiale, quelle carrozze obbligavano le persone a destinazioni non volute. Lì sfrecciava la disperazione, la vita veniva quasi strappata dalla pelle, come se altri decidessero di rimuovere strati di derma, lentamente. Sembra quasi assurdo che oggi si “usino” treni per porre fine alla vita. Che simbologia troviamo nel treno? Cosa può educare Hetty a noi affinché davvero possiamo ricordare?

La simbologia del treno. Mi sovviene il proverbio: “ho perso il treno, il treno non passa più”. Ci sono treni che partono mentre noi parliamo, sono delle figurazioni del male o del bene, tutto è intrinseco a chi vi sale e come. Sembra quasi che non ci sia responsabilità umana, delegando ad un mezzo le conseguenze delle azioni.

Parlare di memoria, un argomento delicatissimo perché esistono guerre sparse nel mondo e orrori quotidiani: come poter imparare? E’ una mancanza di guide? Siamo davvero solo figli dei figli (come anche riporta un altro testo di Marina Corradi) e la nostra fame di possedere un punto di riferimento fa emergere il “bestiale” dentro di noi?

Citazione Testo di Marina Corradi: Solo voltandoci indietro ci pare di scorgere, dai padri ai figli, un filo: a volte doloroso, a volte imprevedibile. Ma, in fondo, misericordioso. Perché nascono e crescono, dopo guerre, povertà, dopo tutte le passioni e gli errori dei padri, i figli dei figli.

Hetty ed il rapporto con i genitori, il rapporto con l’Altro, si può dire che ha raggiunto la consapevolezza di figlia e madre?

Noi desideriamo essere amati, noi vogliamo possedere, in realtà è il desiderio di possedere qualcosa che ha l’Altro. Desideriamo essere perché quel nostro essere non è coltivato, nel contempo non vogliamo scomparire. Vogliamo desiderare quello che l’altro è. In Etty, si sente all’inizio del monologo, c’è il desiderio ossessivo: lei vuole essere amata. Il suo volere però non è possibile colmarlo, poiché desidera tutto. Da ragazza afferma che se le piaceva un fiore, poteva addirittura mangiarselo. Quel desiderio vitale, potenzialmente mortifero se compiuto conserva però una matrice di fermento. Etty non censura la vitalità. Lei incontra la propria parte spirituale, senza annullare la parte di desiderio: questo si inserisce nella situazione drammatica dell’Olocausto, rivelando la straordinarietà di questa donna. Nella versione inedita per il Giuditta Pasta è presente un coro di ragazze che diventano popolo con Etty, intraprendono un viaggio lungo una strada dolorosa, dove vi è una ferita la cui guarigione non è nota.

Il suo io dirompente come riesca ad andare incontro all’altro, ai genitori, al suo popolo, resta un mistero. E’ un passaggio cruciale del monologo. Etty da bisognosa, da donna che vuole avere tutto, con le fragilità, con la voglia smisurata di essere amata in modo viscerale, ha un’illuminazione interiore. C’è il passaggio di servizio verso il prossimo, il dono, è un accadimento in lei misterioso. Si possono tracciare delle tappe, quello che fa Marina nel monologo, citando alcuni passaggi di San Paolo, di San Matteo. Eppure comprendere il Dono totale di Etty non è qualcosa di rilevabile. Lei decide di partire volontaria per il campo di Westerbork. Fa parte di una élite di intellettuali altolocata, avrebbe potuto salvarsi. Invece entra totalmente in relazione col suo popolo. In questi attimi, nella vita del campo, riscopre il rapporto con i genitori. Etty si apre all’Altro. Quello che porto sul palco, non è un monologo teatrale canonico, non ha i passaggi emotivi tipici, perché Etty è un personaggio che parla al di la di sè, Marina evidenzia in maniera toccante questo. La verità della donna olandese ebrea, Etty, si può suggerire, non si ha la presunzione di prospettive oggettive, ci sono salti dell’animo misteriosi in Etty, Marina li lascia cosi.

Il teatro è un laboratorio sperimentale dove si può mostrare, insegnare, formare. Il palco è anche il quotidiano e ricordo bene quanto la tua autenticità ti caratterizza nella professione e negli attimi, qui ed ora, del quotidiano, nelle varie sfumature di sé relazionate all’Altro.

A teatro si possono portare i dilemmi. Pulsioni e bisogni di affermazioni sono parte intrinseca dell’uomo. C’è conflittualità, c’è plausibilità nelle azioni, purtroppo anche nelle guerre. I greci avevano trovato nel teatro la chiave di lettura per esorcizzare la guerra. A teatro si dice: non sappiamo come far stare insieme i pezzi, come supportare la pace. Allora permettiamoci in questo spazio di mettere in campo quelle che sono le ragioni di una disputa. A teatro si può fare. Così si da un messaggio e un’azione, la prima, verso la pace. E’ un inizio.

Si ringrazia Angela Demattè per la sensibilità e attenzione. Si ringrazia il Teatro Giuditta Pasta per la consueta accoglienza e cura nel proporre spunti educativi di rilievo.

erica g

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