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Marco Menegoni e la Rivelazione di Anagoor

da | Dic 4, 2023 | Arte & Teatro | 0 commenti

Martedì 5 Dicembre – 20.45 | Teatro Giuditta Pasta di Saronno | Anagoor in Rivelazione – Sette meditazioni intorno a Giorgione – drammaturgia Laura Curino, Simone Derai; regia Simone Derai; con Marco Menegoni

Giorgione è una delle figure più enigmatiche della storia dell’arte. Cercare di metterlo a fuoco è come osservare la costellazione delle sette sorelle, le Pleiadi: riesce meglio se uno non la fissa direttamente. Questo ha cercato di fare Anagoor con Marco Menegoni e coloro che vivono in questo spazio teatrale a Castelfranco Veneto.

Il dialogo con Marco Menegoni è illuminante, traccia le innumerevoli costellazioni di una Galassia chiamata Anagoor.

Quale è la volontà di portare questo Artista e farlo conoscere? Da cosa è nato questo progetto?

Marco – I documenti dicono che fosse originario di Castelfranco Veneto, ma il desiderio di affrontare Giorgione nasce innanzitutto da un amore profondo per la sua arte. Rappresenta una sensibilità artistica e spirituale in cui ci riconosciamo: è stato un artista rivoluzionario, con uno sguardo inedito sull’umano, sulla realtà e la sua complessità. Il mistero che circonda la sua figura ci ha spinto a guardare le sue opere come a degli enigmi da decifrare. Giungere ad una visione univoca non è possibile, eppure continuiamo a stupirci quando di fronte alla sua pittura, a quel colore particolarissimo che plasma le figure e la luce, ci accorgiamo che l’universo che descrive è in perenne tensione tra un abisso assoluto e una speranza di salvezza. All’interno della pittura di Giorgione, c’è un tentativo di rappresentazione dell’individuo, dei moti interni, però in collegamento diretto con il paesaggio, l’universale, il politico, l’essere in relazione con una città stato che sta per entrare in crisi.

Curioso è approcciarsi alla realtà e quotidianità di Anagoor, singolare l’origine dello spazio fisico, la scelta e lo sviluppo: è possibile tracciare un breve excursus personale, sul percorso dagli inizi ad oggi, sulle emozioni e quali aneddoti sono più significativi per comprendere al meglio? Oltretutto Marco, tu incroci Anagoor in quali coordinate spazio – temporali? Qual è stato l’elemento che ha permesso di incontrare tu e loro?

Marco – Il mio incontro con Anagoor risale ormai a più di vent’anni fa, quando incontrai Simone Derai e Paola Dallan che mi invitarono a prendere parte a questo progetto. Avevo iniziato la professione da qualche anno e avevo alle spalle il tentativo di fondare un gruppo di ricerca coi miei ex compagni di accademia. Non mi gratificava l’idea di un percorso professionale da attore al servizio di mille visioni. Fin da subito sentivo di cercare una casa teatro e un progetto a cui dare il mio contributo. Anagoor stava nascendo e io ho scelto di prendere parte alla sua costruzione. Era il 2002. Cercare di descrivere in sintesi una vita – perché vent’anni sono una vita – è impossibile. Pensare a quali siano gli elementi che hanno permesso la prosecuzione di questo percorso mi riconduce a quella comunione di intenti che è viva ancora oggi: la visione dell’arte teatrale come alveo di tutte le arti possibili, la certezza che all’interno di un gruppo sia favorito lo sviluppo di un pensiero creativo che si arricchisce in virtù della condivisione, dello scambio e del tempo di sedimentazione.

Nella pagina di presentazione ci sono raffigurazioni di quadri, affreschi e delle proposizioni… di seguito ne riporto sette come le Pleiadi e come il canovaccio della “pièce” relativa a Giorgione. Come tu Marco ti poni dinanzi a queste provocazioni, come le vivi?
  • Il teatro in perenne tensione tra la balbuzie della barbarie e lo splendore del neoclassico
  • Nasce di dentro una forza vendicatrice, un argine all’orrore, la mano armata di un’eroina, la bellezza pura che stronca con la spada il capo al marcio.
  • Perché è questo che ci si aspetta dagli animali, no?
  • Che cadano ai nostri piedi senza proferire parola.
  • Io non sono un uccello spaventato, non è per questo che canto.
  • Perché è l’infame follia della violenza che dà forza agli uomini.
  • Lei conosceva la mia opera, che le avevano consigliato, e l’aveva trovata molto dura. Ho riconosciuto che sì, era dura, che anche per me era stata dura crearla, ma mi ero salvato grazie ad una sorta di rabbia
  • Tu vuoi, regina, che io rinnovi ancora una volta il dolore.

Di queste sette citazioni – a parte la prima che è un tentativo di descrivere in sintesi la nostra poetica -, tutte le altre sono testi estrapolati dai nostri spettacoli: Rivelazione che sarà in scena Saronno, Lingua Imperii, Orestea, Virgilio brucia... Per me è come viaggiare alla velocità della luce le galassie, attraversare e riconoscere in queste proposizioni le coordinate che ci hanno guidato. È un percorso molto chiaro per me: nella genesi di ogni opera il lavoro precedente informa quello successivo, innescando nuove e più complesse articolazioni. A volte c’è anche il desiderio di recuperare fascinazioni o esiti formali raggiunti negli anni precedenti accantonati o non totalmente sviluppati, ma che poi si sente il bisogno di far riemergere. Come se ci dessimo degli appuntamenti con materiali incontrati nel viaggio, incontri alchemici e imprevedibili. Non decidiamo a priori il testo o l’autore che vogliamo indagare. Lo incontriamo quando è necessario in quel momento: Giorgione, Carrere, Klemperer, Scurati, Pasolini, Sebald, Weil, Nussbaum, Eschilo, Tacito, Broch, Neft, Zanzotto, Montoya e l’amatissimo Virgilio, rappresentano insieme il firmamento di parola che abbiamo cucito per dire quanto potevamo dell’umano e delle altre specie, dell’infame violenza e della giustizia, della morte e soprattutto della vita.

Marco Menegoni quali sono i punti della tua personale costellazione? Hai sempre desiderato questo mondo di arte, ricerca, comunicazione? Perché ciò che vai a svolgere è ben più di una rappresentazione… potresti descrivere sogni, elementi di memoria, fatti del presente, incontri significativi e passi futuri? 

Marco – Sono stato un bambino irrequieto e da piccolo volevo fare il medico. Poi l’amore per la letteratura russa alle superiori mi ha portato a laurearmi in lingue. L’idea che il teatro potesse essere la mia strada si è chiarita un po’ alla volta, durante gli studi universitari. In quel momento ho capito che il teatro metteva al centro l’importanza della trasmissione del pensiero e rappresentava un’ancora di salvezza per quel ragazzo che aveva da poco perso il padre e guardava la realtà con occhi disincantati.  Poi, studiando Lingua e letteratura russa, studiando i maestri del teatro russo, incontrando il Lev Dodin nel mio percorso di formazione si è chiarita via via la necessità di rivolgere la mia ricerca personale soprattutto alla parola poetica, al tentativo di renderla profondamente radicata nel corpo. Mi guida da allora il tentativo di rendere in modo intimo un discorso complesso, farlo vibrare emotivamente, scevro da meccanismi retorici della comunicazione o del linguaggio parlato, senza facilitazioni o scorciatoie prevedibili.  Più in generale, il mio approccio è stato sempre quello di mediare tra l’attenzione alla sonorità e il contenuto, tentare di non perdere il contenuto in favore di un’estetizzazione sonora, magari svuotata o sganciata dal significato. 

Per me la parola vibra quando si evoca attraverso la memoria, ma questa memoria deve necessariamente farsi anche ricordo: è come se il testo in realtà non dovesse essere “memorizzato” quanto piuttosto “ricordato”, resuscitato alla mente e al cuore da un altro tempo e un altro spazio, come se fosse stato realmente vissuto, quindi transitato nel corpo, facendosi corpo, suono e musica.

Nel percorso di Anagoor, a prescindere dal mio ruolo specifico, mi sento di dire che il performer è un elemento come tutti gli altri. Non c’è una scala gerarchica: il suono, la luce, il video sono tutti “performer” e hanno eguale importanza. Del resto, la nostra drammaturgia è sempre pensata come un racconto polifonico, un polittico che emerge nella pluralità delle voci o dei segni o dei linguaggi attraverso la rievocazione (più che sotto forma di mera descrizione).

Anagoor lo sento risuonare come un regno emerso, una Atlantide rivelata, molte intenzioni e lavori fanno traspirare questo, quali sono emblematici?

MarcoTutti gli spettacoli di Anagoor rappresentano un universo a cui sono legatissimo. Fatico a pensare in termini di spettacoli più o meno emblematici. Probabilmente quelli che per la mia ricerca personale hanno rappresentato una sfida più ardua sono Virgilio Brucia, in cui ho portato avanti un vero e proprio apprendistato linguistico per nove mesi perché non dovevo imparare a memoria o pronunciare il suono del latino, ma parlare realmente la lingua. In tempi più recenti Ecloga XI mi ha messo di fronte a dei versi splendidi e complessi come quelli di Zanzotto, che costituiscono un laboratorio continuo.

Castelfranco Veneto, le origini e lo slancio, cosa simboleggia per te? Quali sono le sue peculiarità e difficoltà, sia territoriali che sociali…

MarcoAnagoor è un progetto nato inizialmente per la città di Castelfranco, con l’intento di spalancare porte e finestre ai linguaggi del contemporaneo in un territorio che non era esposto a questo tipo di vocabolario, e faceva di questo la sua vocazione. Portammo in Veneto per la prima volta alcuni protagonisti della scena nazionale da tempo attivi. La crisi del 2008 ha offerto l’occasione per tagli considerevoli alla manifestazione, prima da parte della Regione, poi della Provincia e infine del Comune. E l’esperienza si è conclusa. Nel frattempo, avevamo trovato lo spazio in cui lavoriamo ancor oggi, la Conigliera. Il festival resta una parte di storia fondamentale del gruppo, perché ci permise di incontrare e confrontarci con altri artisti, e di comprendere il fare teatro a 360 gradi, l’organizzazione, la produzione, la comunicazione e non soltanto l’aspetto artistico. Oggi, dopo l’esperienza di due decenni, riconoscimenti importanti e spettacoli che ci vedono impegnati sia in Italia che all’estero, il Veneto continua ad essere il territorio in cui viviamo e che continuiamo ad amare nonostante le sue contraddizioni profondissime. Citerò una parte di Rivelazione, perché mi pare molto calzante: “Apparteniamo ad una generazione che non ha conosciuto il proprio territorio vergine ma è nata e cresciuta durante e dopo la sua definitiva devastazione. Un periodo storico in cui le Venezie sono tornate ad essere un singolare motore economico, produttore di consumi e ingranaggio della cultura mercantile globale, porta inevitabilmente aperta agli orienti del mondo, con tutte le conseguenti tensioni politiche generate dal pensiero miope di chi crede che la porta aperta da Venezia al mare non debba essere altrettanto aperta dal mare a Venezia. Questa stessa generazione non conosce guerre, visto che l’occidente le ha allontanate da sé e spinte in Terre Sante perennemente ferite. Ma è la prima ad aver assimilato l’angoscia di un olocausto nucleare, la paura di pandemie e di un contagio sessuale che ha cambiato per sempre l’amore, l’inquietudine per un visibile collasso ecologico”.

Le direzioni che toccate sono molte, come reagiscono, come si interfacciano <gli altri> i destinatari, grandi e piccini, di fronte a questo?

Marco – Nel momento in cui rispondo, stiamo terminando le prove di un lavoro dedicato all’infanzia che debutterà a breve, in collaborazione con La Piccionaia di Vicenza: Jinn. I bambini saranno condotti attivamente ad esperire un viaggio e ad entrare fisicamente all’interno dell’azione scenica. Siamo testimoni di un’adesione da parte loro che ci rende felici, della loro possibilità di mantenere un ascolto vigile, prolungato e di emozionarsi. Ma d’altra parte questo è un paradigma che vale anche per il pubblico adulto: l’invito è quello di aderire ad una proposta e a lasciarsi guidare all’interno di un percorso in cui immagine, suono, musica, corpo e parola hanno pari importanza.

Questo spostamento nel “polittico”, come una sorta di marchingegno ad orologeria, vuole istaurare nuovamente un’alleanza di attenzione e di concentrazione con gli spettatori. Attualmente un po’ tutti non siamo più ascoltatori.  Noi siamo coscienti di rivolgerci ad un pubblico che non ha più l’abitudine e   l’educazione all’ascolto. È una problematica di questa nostra epoca invasa da informazioni anzitutto visive. In quest’ottica, noi lavoriamo su una complessità voluta, una sorta di rete pensata per trattenere l’attenzione.

Marco, in quale aspetto dell’artista veneto, ti senti veramente <dentro>?

Marco Nel vedere la bellezza nella crepa e nella domanda: può l’arte indicare una via d’uscita a sconvolgimenti così gravi?

Si ringrazia Marco Menegoni per la stra-ordinaria bellezza di questo dialogo, lo spazio vivo di Anagoor e l’accoglienza del Teatro Giuditta Pasta di Saronno.

Per informazioni sullo spettacolo, biglietti e prenotazioni cliccate -> qui

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