Quando si parla di speranza la gente risponde.
Quando c’è il bello, non si può starsene in disparte, si viene attratti, si viene richiamati, e di questa bellezza ne si vorrebbe a fiumi.
Diventa un diritto ed un dovere, godersi lo spettacolo di ragazzi e ragazze disinibiti, liberi, senza paura, credenti nelle formule di pace e amore, sicuri che fiori e libertà, meditazione e marce con tanto di gonnelloni sgargianti e arie surreali, siano le armi per costruire qualcosa di meglio, nel proprio piccolo giardino, sconfiggendo la paura, le battaglie che vengono imposte, le guerre che i civili non vorrebbero nemmeno immaginare.
Ci sono molte guerre, troppo taciute, occorre rivolgersi a questi ragazzi, a Berger, Hud, Ronnie, Jeanie, alla Tribe di Hair! Non si tratta solo di un gruppetto di vagabondi, anticonformisti, denominati Hippie, capaci di perdere tempo meditando e fumando qualcosa di più di semplice tabacco.
Gli Hippie hanno creato una nuova cultura, irrompendo nell’ideologia di fine Anni Sessanta. Oggi abbiamo bisogno di loro perché debbono rispolverarci sia qualche lezione di storia, sia smuoverci verso gesti di speranza, slanci da tradursi in piccole ma costanti perle quotidiane di apertura. Non ci conducono verso la pace dei sensi bensì verso una consapevolezza di poter cambiare di poco la rotta di ogni giorno, come chi costruisce per ciascuna Alba una gru da regalare con un sorriso alla nonnina che va a prendere il pane, oppure pone la ciotola di avanzi sul terrazzo quando la Luna fa capolino e qualche randagio si avvicina.
L’era dell’Acquario è vista come l’era del risveglio. Oggi, nel 2022, noi viventi, noi esseri umani, piccole forme di esistenza, secondo alcuni calcoli, osservando la disposizione delle stelle e dei pianeti, affondiamo i piedi in una terra ove il fertilizzante è la gentilezza, l’amore, la rinascita delle coscienze.
La musica di Acquarius, una delle canzoni simbolo del Tribal-Rock-Love Musical Hair, introduce questo tema. Le questioni che sono sviscerate per mezzo di una produzione teatrale fedele, cercano di prendere una mira differente. Non si tratta solo di guerra, di rivoluzione pacifista, di marce con margherite tra i capelli e inni che intessono odi alle droghe.
Perché da una parte c’è l’energia delle canzoni che denunciano l’era nuova, l’era del risveglio, delle manifestazioni dei figli dei fiori di stoffe, che trascorrono il tempo senza null’altro che abbellire camicioni e abiti con vistosi fiori, unici accessori che spiccano tra quei capelli libertini e quegli occhi vaganti tra una realtà limitata ed un surreale a cui si attinge con sostanze allucinogene. Giusto, sbagliato? Questo movimento indica che vince quel relativismo capace di creare, di co-creare e di non distruggere.
In Hair si nota questo “Oltre spezzato”, questo significato da leggere che non può essere uguale per tutti. Si resta entusiasti della trasposizione sul palco, dei personaggi iconici, delle battute e delle mimiche assolutamente precise, eppure si sente che il regista, che gli attori vogliono comunicare l’oltre.
C’è qualcosa di più sottile. È un rifiuto di meccanismi attuati dall’uomo in quanto tale verso altri uomini. Ribellarsi alla soggezione esprimendosi attraverso code statistiche estreme. Si resta condannati: chi a piangere coloro che alla fine hanno ceduto al sistema e chi, si ritrova con una chioma indomabile. Al posto però che cercare spazzole ai grandi magazzini, è meglio creare l’amore.
Non solo uomini contro il potere, liberalismo contro capitalismo, piuttosto uomini che ricercano le origini consumando ciò che può alienare senza ridursi all’accettazione macchiandosi di villania.
Forse Hair rimarca il filo conduttore che unisce i ribelli, dai partigiani agli Hippie.
Se volgessimo lo sguardo ad un campo di fiori lasceremmo perdere i grandi magazzini!
Sono sempre stato un istintivo. Ho imparato che conviene affidarsi a un segno, a un odore, a un sapore. Piccoli campanelli d’allarme che ti dicono “vai”, oppure “non andare”. Bene, quell’elicottero che doveva portarci sulla collina 1383 aveva davvero un brutto rumore. «Allora, si va?», ci urla Pip, l’accompagnatore. «Andiamo», risponde Oriana Fallaci.*
Siamo qui dinanzi a questi ragazzi che ci hanno condotto in un’epoca non troppo lontana ma già scordata. Chissà che voto avremmo preso in una verifica o quiz di Storia. Bisognerebbe riguardare gli appunti presi ai tempi del liceo. Ma, nei programmi, la Guerra del Vietnam è sempre in fondo ai tomi, si sorvola velocemente. Adesso ci si soffermerebbe di più. Perché potremmo comprendere meglio le nostre guerre, le nostre paure.
*(*)Le citazioni sono tratte dal reportage del fotografo Gianfranco Moroldo, inviato de L’Europeo; i fatti si riferiscono alla battaglia di Dak To, nel 1967, uno dei numerosi e sanguinosi scontri annoverati nella guerra del Vietnam. Il testo completo è leggibile in “L’europeo N°16, 1987”
Si ringrazia il Cast Artistico, il Team Creativo di Hair e l’Orchestra di Eleonora Beddini
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