La ricerca scientifica e le donne, protagoniste di ciò che effettivamente rappresenta questo mondo, racchiudono in sé la passione e la fatica che quotidianamente si presentano sui banconi del laboratorio. Grazie a questa passione ed al desiderio di carpire i “misteri” delle neuroscienze possiamo incontrare ed ascoltare una brillante, giovane e tenace ricercatrice: Jenny Sassone.
Jenny Sassone: la tua personalità e la tua preparazione ti hanno portato ad essere una ricercatrice con un “spessore” scientifico notevole! Infatti, numerose pubblicazioni portano il tuo nome e sono legate ad importanti studi sulla malattia di Parkinson, la malattia di Huntigton, la Sclerosi Laterale Amiotrofica nonché la ricerca in farmacologia per individuare approcci terapeutici farmacologici. Hai sempre pensato al mondo della ricerca scientifica? Quali sono stati i momenti chiave che hanno caratterizzato il tuo percorso?
Sì, ho sempre avuto fin da piccola un grande interesse per la scienza, in particolare la chimica, la biologia, la genetica e la medicina. Da sempre direi. Infatti ho scelto di diplomarmi come perito chimico, poi la laurea in biotecnologie farmaceutiche, la scuola di specialità in genetica medica e in autunno completerò il mio dottorato in Medicina Molecolare e Farmacologia. Non ho mai avuto nessun dubbio che questo fosse davvero il mio percorso! Momenti chiave ce ne sono stati molti. Pensando a quelli che ricordo di più, ci sono:
- la mia prima esperienza in laboratorio per la tesi di laurea, presso il laboratorio di Neuropatologia del Dott. Tagliavini al Besta;
- la bellissima esperienza di ricerca alla University of Alberta nel laboratorio di Neuroscienze diretto dalla Prof.ssa Sipione;
- il mio primo grant di ricerca (n.d.r. proposta di ricerca finanziata) che mi è stato dato dal Ministero della Salute Italiano, nell’ambito di una call (n.d.r bando di ricerca) giovani ricercatori;
- infine il più recente e forse più bello, quando ho vinto il concorso come ricercatore presso la mia Università al San Raffaele.
Perchè arrivare qui e avere l’opportunità di fare ricerca in un Istituto di livello scientifico altissimo è davvero un privilegio.
La tua preparazione sin da adolescente è di stampo scientifico e, rivedendoti da ragazza, come hai detto poco fa, fare ricerca è ciò che desideravi di più: hai avuto sempre supporto dalla tua famiglia?
Si sempre, sono sempre stata incoraggiata a portare avanti i miei interessi, a decidere con la mia testa sul mio percorso di vita. Su questo devo ringraziare ad oggi ancora di più mio marito, che mi ha sempre supportato e aiutato in ogni momento.
Jenny come donna oggi: quali sono le tue passioni lontano dal laboratorio, come trascorri il tempo libero, quali sogni nel cassetto hai?
Viaggiare. Ogni volta che ho la possibilità di distaccarmi dal laboratorio anche per poco tempo, quello che facciamo con mio marito, è prendere un aereo e visitare una parte del mondo in cui non siamo mai stati. Visitare i posti, capire la cultura del luogo. Abbiamo fatto moltissimi viaggi indimenticabili, tra i posti che ho più ho apprezzato, il Medioriente, la Grecia, i Paesi del Nord Africa e lo Srilanka.
I tuoi studi ti hanno condotto al mondo delle neuroscienze: com’è nata la passione per questo tipo di ricerca?
La passione per le neuroscienze c’è sempre stata, lo ricordo fin dal primo anno di Università, quando ho dovuto scegliere il mio percorso per l’internato di tesi non avrei potuto scegliere altrimenti. Da sempre ho avuto l’interesse a capire perché si sviluppano le malattie neurodegenerative e come curarle.
Come percorri la strada della ricerca rispetto all’etica?
È un aspetto importante che coinvolge vari aspetti. Dall’utilizzo degli animali in sperimentazione, alla onestà intellettuale nella pubblicazione dei dati, all’ interazione onesta e trasparente con i colleghi e con le persone che non sono primariamente coinvolte nella ricerca scientifica ma hanno diritto di sapere come progrediscono i nostri studi, che spesso sono finanziati da fondi pubblici o fondazioni ONLUS. Credo che anche in questo aspetto in Italia si stiano facendo molti passi avanti, anche se si può migliorare ancora. E’ fondamentale per questo tema, la diffusione degli aspetti legati all’etica in ricerca già agli studenti che si approcciano ad entrare nel mondo scientifico, in modo da creare future generazioni di scienziati che rispettano i principi importanti dell’etica in ricerca.
La ricerca ti ha fatto e tutt’oggi ti porta a viaggiare molto, inoltre hai svolto per un lungo periodo attività di ricerca presso l’università canadese di Alberta: come ti hanno aiutato queste esperienze sia come ricercatrice che come persona?
Viaggiare e conoscere altri ricercatori e altre realtà è indispensabile, è una cosa che ripeto sempre ai miei studenti che sono all’inizio del loro percorso. Non abbiate paura a prendere un aereo per passare un periodo di ricerca in un’altra città o nazione o continente. Perfino organizzare una riunione con il laboratorio che è alla porta di fianco a voi è importante. Lo scambio di opinioni, di idee, è fondamentale perché apre la mente a scenari a cui non si aveva mai pensato, arricchisce. E inoltre arricchisce moltissimo anche dal punto di vista umano. La bravura di un ricercatore non sta solo nelle sue conoscenze, capacità tecniche o nel numero di pubblicazioni scientifiche che ha fatto. Sta anche nella sua capacità di imparare dagli altri e di insegnare agli altri quello che sa, dedicando il proprio tempo ad altri colleghi con generosità e senza aspettarsi nulla in cambio. Con questo atteggiamento, ogni tipo di esperienza arricchisce, perfino quando ci si trova a dover interagire con persone di poco spessore scientifico o umano, cosa che mi è successa e che succede a tutti, in ogni ambito lavorativo. Anche da queste esperienze, credo di aver imparato molto.
Essere in un team di ricerca, e tu, hai avuto occasioni di operare in differenti ambienti (istituti e laboratori universitari), significa confrontarsi e misurarsi con altri scienziati: hai incontrato persone che ti hanno formato, ti hanno lasciato qualcosa d’importante, hai incontrato difficoltà? Cosa significa fare ricerca in Italia rispetto all’estero?
All’estero esiste molta meritocrazia e questo rende tutto molto più semplice per i ricercatori che ottengono buoni risultati. In Italia ci sono passi avanti da fare in questo senso, ma devo dire che negli ultimi anni ho visto molti miglioramenti nel nostro paese su questo aspetto. All’estero un ricercatore che ha avuto esperienze di lavoro in molti istituti diversi è considerato molto positivamente, in Italia esiste ancora un po’ la mentalità di guardare con sospetto chi invece ha cambiato più esperienze lavorative, ma anche su questo credo che il nostro paese si stia internazionalizzando negli ultimi anni. Devo ammettere di aver avuto momenti di difficoltà in passato quando mi sono trovata a cercare un nuovo laboratorio in cui portare avanti i miei progetti di ricerca. Ho trovato porte chiuse, ma ho trovato anche porte che si sono aperte solo di fronte a un buon CV e a criteri meritocratici. Persone importanti che hanno contribuito alla mia formazione, e ancora contribuiscono, ne ricordo molte. Può sembrare retorico ma devo ringraziare in particolare colleghe e superiori donne. Non vorrei fare nomi ma devo sicuramente ringraziare le colleghe che mi hanno insegnato i primi esperimenti di biologia molecolare, le colleghe con le quali abbiamo per lungo tempo lavorato sulla Malattia di Huntington, sia sulla genetica che sugli aspetti di ricerca di base, le colleghe che ad oggi lavorano insieme a me in laboratorio e veramente importante la mia scientific mentor. Da lei imparo quotidianamente.
Sei membro dell’ European HD Network (EHDN): quali sono gli obbiettivi?
Ho dedicato moltissimi anni alla ricerca sulla malattia di Huntington. Negli ultimi anni i miei progetti si sono principalmente concentrati sulla malattia di Parkinson perché abbiamo avuto supporti economici dal Ministero, dalla Fondazione Cariplo e dalla Fondazione MJFox Americana su questo tema. Sperò però presto di poter riaprire un progetto di ricerca sulla malattia di Huntington.
Nel 2016 hai ricevuto il Premio Telethon-Farmindustria per la ricerca in neuroscienze… cos’hai provato?
E’ stato un momento incredibile. Stavo attraversando un momento difficile, forse uno dei più difficoltosi nella mia carriera lavorativa, quei momenti in cui sembra perfino di perdere la speranza. E un pomeriggio mi è arrivata questa mail in cui mi si chiedeva di presentarmi a Roma pochi giorni dopo per l’assegnazione di questo premio. Ricordo il luogo della premiazione, il Tempio di Adriano illuminato di rosa, l’incontro con i Ministri presenti, la presidentessa di Telethon, il premio ricevuto dal presidente di Farmindustria. Quando sono arrivata mi hanno chiesto se ero orgogliosa di essere stata scelta…..ho esistato non sapevo cosa rispondere perché sono abituata a stare nel silenzio del laboratorio e non su un palcoscenico davanti ad una telecamera…e allora mi hanno risposto che avrei dovuto essere orgogliosa perché ero stata scelta tra 450 candidate. È stato un momento importante che ha dato un forte incoraggiamento e ha dimostrato che in Italia esiste meritocrazia e attenzione per i giovani ricercatori.
Le neuroscienze sono un gruppo di discipline, differenti ma interconnesse tra loro, che studiano il sistema nervoso, ossia il cervello, il midollo spinale e le reti di neuroni che sono sparsi per tutto il corpo. La malattia di Parkinson è una malattia degenerativa del sistema nervoso centrale, caratterizzata da tremori, rigidità, deficit posturali. Colpisce persone di età adulta-avanzata ma esiste una forma giovanile più rara.
La malattia di Huntigton è una patologia ereditaria del Sistema Nervoso Centrale in cui vi è la degenerazione dei neuroni dei gangli della base e della corteccia cerebrale. È caratterizzata da movimenti involontari patologici, gravi alterazioni del comportamento e un progressivo deterioramento cognitivo. L’esordio avviene di solito tra i 30 e i 50 anni (le forme giovanili sono rare) e il decorso è lento e progressivo, fatale dopo 16-20 anni di malattia. L’incidenza è di 1 caso ogni 10.000.
La SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica) è una malattia neurodegenerativa del Sistema Nervoso Centrale che porta alla completa degenerazione dei motoneuroni causando una paralisi totale. L’esito della malattia purtroppo è tutt’oggi fatale. L’incidenza è di circa 1-3 casi ogni 100.000.
Jenny, nella tua ricerca ti sei occupata in particolar modo della malattia di Parkinson, Huntigton e SLA: di cosa si tratta, quali sono gli obbiettivi della ricerca, i traguardi sino ad ora raggiunti?
I miei progetti di ricerca possono essere distinti in due parti. In una prima parte analizziamo le “differenze” esistenti tra cellule sane e cellule malate, utilizzando come modelli cellule in vitro geneticamente modificare, tessuti provenienti da pazienti e modelli preclinici. Questa parte è importante perché ci permette l’individuazione di “target molecolari” cioè di molecole e pathway che differenziano le cellule malate da quelle sane.
La seconda parte è quella farmacologica. Una volta individuati target, cerchiamo farmaci o approcci di terapia genica, in grado di intervenire selettivamente sulle alterazioni presenti nelle cellule malate e studiamo se il trattamento farmacologico o con approcci di terapia genica possa arrestare il decorso della malattia o prevenirla, nei modelli preclinici.
Insieme questi studi pongono le basi razionali e indispensabili per arrivare poi a trials clinici nei pazienti.
Si potranno curare o quanto meno alleviarne le conseguenze penalizzanti?
Io ci credo. È vero che ad oggi non abbiamo raggiunto risultati che ci permettano realmente di prevenire o curare in modo definitivo queste malattie. Ma sono convinta che se si continua a sostenere e a credere nella ricerca dei risultati importanti saranno raggiunti.
Ci sono giorni dedicati alla Vita, alle donne, alla ricerca sulla SLA o ad altri tipi: cosa ne pensi? Hanno valore?
Io credo di si. Hanno valore perché attirano l’attenzione su temi che meritano attenzione. Viviamo in un modo mediatico e iperconnesso in cui esiste poco tempo per riflettere su valori che possono essere importante. Dedicare giornate a particolari temi aiuta a metterli in evidenza
Jenny Sassone, che messaggio vorresti lasciare oggi a tutti ed in particolare ai giovani?
Il messaggio è di avere coraggio. Di non smettere mai di cercare la loro felicità e realizzazione. Nell’ambito lavorativo, famigliare, sociale, di capire quali sono le cose che li rende felici e non smettere mai di tentare di raggiungerle. E di non aver paura nel cercare aiuto, nei momenti in cui ci si sente in difficoltà credere e dare fiducia alle persone che ci circondano.
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