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Papusza: la bella romnì dal cuore non di porcellana ma profumato di bosco

da | Nov 7, 2020 | Libri & Cultura

papusza

“Papusza, una bambina orgoglio dell’umanità o grande vergogna alla comunità” (n.d.r dei Rom): le parole di una donna zingara alla nascita di questa Donna da scoprire tra essenze di bosco e corde di arpa…

Il bosco mi ha allevata come ramo dorato,

in tenda romanì simile a un fungo.

Amo il fuoco più della mia vita.

Venti impetuosi e lievi

cullarono la bimba romanì. 

La spinsero come trottola in giro… (n.d.r Canto romanì con parole uscite dalla testa di Papusza – Traduzione di Mariagrazia Pelaia)

Avevo una bambola di porcellana. Era posata sul letto accanto al mio. Aveva i capelli mossi, castano chiari, la pelle d’avorio, gli occhi di un marrone profondo! I suoi indumenti erano un corpetto ed una gonna lunga dalle tonalità bordeaux cremisi, l’orlo in pizzo. Ricordo anche la cuffietta con le stesse applique e colori. Era bella. Delicata.

Però era di porcellana.

Le piogge mi asciugarono le lacrime,

il Sole – aureo padre romanì –

m’ha il corpo riscaldato

e l’anima abbronzato.

Dalla fonte azzurra forza ho tratto,

i miei occhi ho sciacquato…

Avevo una bambola di porcellana. Era posata sul grembo della precedente poiché ben più piccina. I suoi capelli ricci e biondo scuri incorniciavano un visino minuto, pallido e vagamente roseo. Vestiva con un completino azzurro pastello, come i pastelli a cera che andavano così di moda ai tempi dell’infanzia, sarebbe bello riprenderli in mano! E con l’azzurro era un’impresa titanica creare le giuste sfumature! Solo nel piccolo top che le cingeva il petto c’era del merletto, il resto era tutto velluto. La potevo cullare nel palmo di una singola mano tanto era minuta. Graziosa. Era spiritosa e questo suo vezzo lo si leggeva dalle lentiggini spruzzate sugli zigomi.

Però era di porcellana.

L’orso i boschi frequenta

come l’astro argenteo;

del fuoco il lupo si spaventa,

i roma non tormenta.

La romnì nel bosco si va a perdere,

il cavallo romanì ode nitrire,

che i gaggi fa svegliare,

il cuore romanì fa rallegrare.

La prima bambola la donai ad un’amica che se ne innamorò all’istante. La seconda cadde e si slogò un braccio, anche lei dopo poco, trovò un’altra sistemazione.

Però erano di porcellana.

Lo scoiattolo nella tana romanì

ha noci da addentare.

Oj, che piacere vivere,

il bosco ascoltare!

Oj, che bellezza

tutto questo vedere!

Oj, che piacere,

mirtilli, lacrime romanì, cogliere.

Sapete in lingua rom come si traduce “bambola”? Papusza. Questo è il nome dato a Bronislawa Wajs (una romanì, una zingara nata in Polonia molto probabilmente dopo la Metà dell’Agosto del 1908 / 1910 e tornata alla Natura ch’ella amava nel 1987).

Oj, che piacere vivere,

di notte gli uccelli sentir cantare!

Oj, che bellezza

nel bosco, vicino alla tenda romanì,

canta una pupa per sé, un gran fuoco arde!

Una rom che si rivela essere “La” poetessa nomade del DopoGuerra, fondamentale emblema della letteratura di un popolo conosciuto da un’angolazione sempre sinistra, i Rom appunto. Anche la storia di questa Donna ha una prospettiva infelice analizzando i dati di realtà, eppure ella ci ha lasciato un patrimonio da riscoprire, come la sua bellezza … di porcellana. La Natura domanda a noi di custodirla e non venderla più.

Oj, che bello: gente, potete udire

da lungi il canto pasquale degli uccelli,

il pianto di bimbi, danza e canto

di ragazzi e ragazze!

Zingara polacca, Papusza, appartiene ad una kumpania (aggregazione familiare) di virtuosi dell’arpa, impara a leggere ed a scrivere in segreto “rubando”. Toccante la sua testimonianza:

Il mio patrigno era un ubriacone e un giocatore d’azzardo, mentre mia madre non sapeva cosa significasse leggere o scrivere nè cosa una bambina dovesse imparare. E allora come ho imparato? Chiedendo ai bambini che andavano a scuola di mostrarmi come scrivere le lettere. Rubavo sempre qualcosa e gliela portavo così poi loro mi insegnavano in cambio. Ed è così che ho imparato le lettere a, b, c, d e così via.”

Oj, che piacere vivere,

di notte lungo il fiume andare,

i pesci freddi come acqua gelata

con le mani abbracciare.

La lettura è la sua vera passione benché questo rappresenti l’origine del disprezzo da parte della sua famiglia e del suo “clan” infine. Papusza è venduta in sposa a soli quindici anni ad un uomo molto più grande di lei, un suonatore d’arpa, Dionizy Wajs.

Oj che piacere i funghi raccogliere,

il proprio amore nutrire,

patate al focolare arrostire…

I boschi dell’Ucraina rappresentano per Papusza la garanzia di salvezza durante la Seconda Guerra Mondiale e successivamente continuerà a girovagare nelle terre polacche.

Già aspetta sul prato il cavallo romanì

la partenza del carro.

Oj, che piacere le notti vegliare,

sentire rane che splendide cantano.

I denominatori comuni per Papusza, lungo tutta la sua esistenza furono il canto e la musica, profumati dall’essenza della sua vera dimora ossia la Natura. Note di arpa provenienti da quelle mani molto più grandi di lei unite nel sacramento del matrimonio, testi, “canzoni uscite dalla testa di Papusza” come lei stessi li definiva. Parole che mostrano stralci auto-biografici, tradizioni ed usi dei gitani, l’eco del cielo, della bellezza di Madre Terra (la Grande Baro Dè), il forte richiamo della strada che è scritto nel codice genetico proprio degli zingari. Il tutto cosparso da una malinconia di un’epoca di cambiamento, di avvenimenti che avrebbero portato scompiglio. Come nelle scintille di un falò trasportate dal vento…

Chioccetta, pigolio stellare e Carro

in cielo ai roma il futuro predicono.

L’astro argenteo,

padre degli avi indiani,

luce viene a portare,

nella tenda entra i bimbi a scrutare,

il suo lume aiuta la romnì

il pannolino al bimbo a cambiare.

Tra quelle scintille vi è l’incontro con Jerzy Ficowski (giornalista e traduttore, sostenitore della sedenterizzazione dei Rom): egli rappresenterà l’angelo della sorte di Papusza. Porterà fortuna e disgrazia alla bella romì di porcellana. La mostrerà attraverso la pubblicazione delle sue poesie cosicché tutti i gagè (coloro che non sono zingari) conosceranno gli amuleti sulle carovane, gli stracci preziosi della bella signora con orecchini di corteccia, la vernice dorata sugli infissi per allontanare gli spiriti notturni, i boschi che hanno protetto Papusza e la sua kumpania.

Oj, che piacere il cielo ammirare,

nel cuore i suoi fiori azzurri cogliere.

Oj, che piacere,

scuri occhi e viso da baciare,

oj, che bello udire il bosco stormire,

cantarmi le sue arie.

La farà involontariamente cadere spezzandola, poiché per la gente di Papusza, quelle rivelazioni di canti furono peggio che un tradimento. Dalle loro divulgazioni, molte pressioni da parte dei gagè furono esercitate nei confronti degli zingari affinché conducessero una vita sedentaria “forzata”, vi fu un censimento. Papusza fu condannata dalla più alta autorità romanì all’esilio dalla comunità.

Papusza non scrisse più e bruciò ogni verso.

Ficowski continuerà a pubblicare ciò che è rimasto.

Gli ultimi pezzi della bambola di porcellana.

Oj, che piacere: i fiumi fluiscono,

il cuore mi rallegrano.

Oj, che piacere guardare il fondo

della signora-fiume, e a lei tutto confessare.

Chi mi potrà capire?

La bambola di porcellana cadde, non un segno esterno di frattura mostrò. Fu nella sua mente lo strappo, nel suo cuore: una profonda depressione si impadronì di lei. Il senso di colpa venne consumato in un ospedale psichiatrico. Le ultime lacrime di Papusza furono per il grande padre Bosco a cui si affidò chiedendo misericordia.

Solo boschi e acque.

Quello che qui racconto

è tutto tutto da un pezzo trascorso,

tutto tutto da un pezzo scomparso,

anche la gioventù.

Nel vento di grecale tradizioni e contraddizioni di un popolo descritti da una delicata porcellana vivente. Le stelle giungono ad illuminare i sonagli che animano in un cerchio danzante, un anello di fuoco le cui maglie sono le parole di Papusza.

«Romnì* povera, giovane

bella come un mirtillo

denti bianchi come perle,

occhi brillanti come l’oro vero.

Gli orecchini fatti di foglie, eccoli,

come oro genuino son belli.»

(n.d.r frammento di ‘Orecchino di foglia’ – trad. di G. Spinelli)

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